Prosa | |
Come tutte le mattine, percorro
la strada che mi conduce al liceo, il Quinto liceo scientifico di Stato
"Guido Castelnuovo"; sono orgoglioso di questo liceo, sono orgoglioso
della mia scelta e di tutti i miei compagni di classe che dal primo anno
frequento, anche se non assiduamente, ma con una intensità che mi resta
nella pelle. Fra qualche giorno avremo gli esami di maturità e so che
forse molti non li vedrò più.
Simonetta mi telefona verso la fine di maggio: "Ha detto Cesare che ha intenzione di organizzare una cena di classe." Rispondo che ci sarò senz'altro; il mio lavoro, però, non mi consente di esserci se non nella seconda metà di ottobre. Oggi a scuola è una di quelle giornate che non si reggono proprio: cinque ore, Italiano, Latino, Francese, Storia e Filosofia. La Ronchey è una donna meravigliosa: di cultura, elegante, quando parla è perfino accattivante. Io credo che siamo tutti un po' innamorati di lei. Ma la quinta ora non la reggo proprio; Adinolfi e io ci scambiamo uno sguardo d'intesa e chiediamo di uscire; dopo un po' ci raggiunge anche Petrera e prende il suo posto nella partita di pallavolo. Quando l'ora sta per finire rientriamo; siamo sudati fradici. "Ti mando un fax con i nomi dei nostri compagni di classe - mi dice Simonetta - Cesare mi ha detto che ne hanno fatta un'altra di riunione, l'anno scorso; erano pochi, ma si sono divertiti lo stesso". Mamma mi dà un pacchetto di sigarette "Papastratos" e mi concede l'accendino, omaggio dell'Imperatore del Giappone a mio padre quando andò alle olimpiadi del '64 in rappresentanza dello Stato Maggiore della Difesa. Quando vado alle feste importanti, mamma decide sempre che devo fare bella figura; e stasera la festa è importante perché è a casa di Simonetta. Siamo tutti in giacca e cravatta; solo Auconi ha un maglione a giro collo, ma lui se lo può permettere perché abita alla Balduina; la camicia e la cravatta, comunque, ce l'ha. La mamma di Simo prepara sempre una quantità di pasticcini e di tramezzini; Coca Cola, aranciata e, adesso che stiamo diventando grandi, fa capolino sul buffet anche qualche liquore, ma noi ci guardiamo bene dal berne. Siamo tutti un po' timorosi, timidi, educati. Quando cominciamo a far andare il giradischi ci vuole un bel coraggio per iniziare a ballare. Da Simonetta non spegniamo nemmeno mai la luce: non ci sembra buona educazione. Ho preso quattro giorni di licenza, da giovedì a Domenica per andare a Roma a ritrovare i miei amici. Giovedì l'andata, venerdì gli amici, sabato i miei genitori, domenica il ritorno. Sento come una tensione. Arrivando a scuola troviamo i picchetti di quelli che ci vogliono costringere a non entrare in classe. Incontro Giuseppe Dubla. Lui ha la macchina, una otteccinquanta. C'è uno scalmanato che cerca di impedirci di superare il blocco. Io salgo in macchina con Dubla. Lui accelera. Lo scalmanato si pone davanti alla vettura. Dubla non frena. Il picchettaro ci viene a finire sul cofano della macchina. Ce lo portiamo per circa cinquecento metri fino a scuola. Lui con il panico dipinto sul volto e noi con un senso d'ilarità misto a preoccupazione. All'ingresso della scuola gli consentiamo di scendere. Non voglio fare il fascista, non lo sono. Voglio solo affermare il mio diritto a decidere per conto mio, e se qualcuno cerca di costringermi a fare quello che ha deciso lui, allora vado in bestia. Come sono emozionato! Esco da casa dei miei e mi avvio verso casa dei genitori di Simonetta. Lei è venuta da Milano; mi confessa che l'emozione la sconvolge quasi. La vedo, infatti, molto turbata. Sono ventotto anni, ne avrà pure il motivo! E io no? Si, anch'io mi sento un animo di diciottenne, quello che mi dava forza quando andavo a scuola alla mattina, quello che mi faceva incontrare i miei compagni di classe con l'energia dell'adolescenza. Nella cinquecento del cugino di Sandra, sul raccordo anulare, dal registratore, Fausto Leali canta "A chi". Il sole che tramonta ci impone il suo rosso fuoco. La machina allegramente percorre a ottanta all'ora la strada che ci riporta a casa. Io e Sandra siamo sui sedili posteriori. Vicini. Troppo vicini per non lasciarci coinvolgere dalla musica e da questa intimità. L'appuntamento è da Cesare che ha una tabaccheria vicino Piazza dei Cinquecento. Simonetta e io, dopo aver parcheggiato la macchina, ci arriviamo. Quando vedo Cesare attraverso il vetro del suo negozio mi sembra lo stesso, solo un po' stempiato. Mi chiedo come lui vedrà me, con questi capelli bianchi che mi porto oramai da tanti anni. Lui non ha esitazioni. "Gianni!" Faccio fatica a trattenere una lacrima. E' la prima volta che viene tanta neve a Roma. Io non me ne preoccupo. Vado a scuola lo stesso. Con Sandra c'è anche Palo De Pascali e qualcun altro; saremo in cinque o sei. Ci avviamo verso l'ospedale San Camillo, in salita. Quando scendiamo per ritornare a casa, mi sento mancare all'improvviso le gambe; volo; cado col culo a terra. Come si fa a non ridere! Arrivano Auconi, De Pascali, Pascucci, Ciabatti, Falasca, Ciccotosto, Pascucci, Ercoli, Dubla, e ancora, e ancora. Li riconosco tutti, solo De Pascali mi dà qualche problema: è cambiato un po'. Lui adesso è professore all'Università di Roma. Gli altri sono medici, professionisti; tutte persone, se vogliamo, importanti. Ilio Biondi non c'è. Tutti grandi. Io faccio il militare. La Ronchey m'incanta; ma non credo di essere l'unico della classe che si fa incantare dalla Ronchey. Quel suo modo di parlare, di offrirsi a noi, di raccontarci la Storia e la Filosofia ci incanta. E' una donna di cultura, non c'è dubbio, ma qualche volta noiosa. E' per questo che qualche volta ce ne usciamo e ce ne andiamo a giocare a pallavolo. La serata trascorre così serena che sembra che non ci siamo mai persi di vista. Chi racconta di sé; chi offre poesie, libri, chi si riscopre ancora pervaso della vecchia passione, ma non la dà a vedere. La trattoria ci congiunge. Seduto al mio banco, seguo la lezione di matematica. E' quella che mi interessa di più. Qualcuno sembra che si annoi, qualcuno sbadiglia; a me la matematica mi piace. Biondi segue tutte le lezioni indifferentemente. Biancamaria Natrella si vuole fare suora, ma noi non ci crediamo, anche se ci partecipiamo. Tutto a base di pesce, ci abbuffiamo e ci sembra di non esserci mai lasciati. Siamo come quelli di una volta. Forse qualcuno con i capelli bianchi. Qualcuno non ce li ha più, ma tutti con quella stessa voglia di vivere. Mi sembra di ritrovare degli adolescenti, gli stessi che avevo lasciato quasi trent'anni fa. Dopo ventott'anni siamo qui a ricercarci. Solo il fatto di ricercarci mi dà i brividi. Mi fa sentire un po' più giovane, e un po' più vecchio. Chi sarò mai io? Quel giovane adolescente di trent'anni fa che vede i suoi compagni di scuola come se non fosse trascorso nemmeno un giorno da quando li ha lasciati? O forse questo quasi anziano signore di quarantasette anni con i capelli bianchi e la pancetta? Chi mai sarò io? L'indomani, Simonetta mi confessa che non ha dormito. Pensava che se dovesse morire vorrebbe attorno a se i suoi compagni di scuola. Quando me l'ha detto sentivo il desiderio di versare almeno una lacrima. Ma non ho potuto farlo. Sono un maschio. Simonetta invece si, l'aveva fatto, aveva pianto tutta la notte. La scuola moderna, tutta di prefabbricati, ci accoglie nelle sue braccia da quando entriamo in prima "A" nel sessantatré a quando la lasciamo nel sessantotto. Non resistiamo, Simonetta e io, e ci rechiamo in pellegrinaggio alla nostra scuola. Sembra proprio la stessa. Una suggestione ci prende. Il nostro passato si fa presente. Ed ecco apparire dietro i vetri della classe i nostri volti e materializzarsi le nostre voci. E' la nostra quinta "A". Giovanni Bernardi |